Silvio Pellico nasce a Saluzzo (Cuneo) il 24 giugno del 1789. Comincia gli studi a Torino per proseguirli in Francia, a Lione, presso uno zio al quale suo padre Onorato lo affida per avviarlo al commercio, mestiere di famiglia. Ma, come si vedrà, le inclinazioni del giovane Silvio sono di tutt'altro genere. Resterà in Francia fino all'età di vent'anni, apprendendone la lingua ed assimilando molto della cultura francese.
Nel 1809 si ricongiunge con la sua famiglia, a Milano, dove comincia a lavorare prima come professore di francese nel Collegio Militare degli Orfani e poi come precettore presso varie famiglie patrizie fino a quella del conte Porro Lambertenghi. E' intanto maturata in lui una forte passione per le lettere, che lo porta a conoscere e frequentare alcuni fra i più grandi esponenti della cultura italiana ed europea: Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Federico Confalonieri, Gian Domenico Romagnosi, Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Madame De Stael, Stendhal, George Gordon Byron, Friedrich von Schlegel, John Cam Hobhouse. Comincia in questi anni la sua produzione letteraria con alcune tragedie, la più importante delle quali è "Francesca da Rimini" che, rappresentata nel 1815 da Carlotta Marchionni, riscontra un successo trionfale.
Qualche anno più tardi Silvio si innamora della cugina di Carlotta, Teresa, che lui chiama affettuosamente "Gegina". "Francesca da Rimini", insieme ad "Eufemio da Messina", sono le opere che ne rivelano il profondo talento poetico. In casa di Lambertenghi, fervido liberale, Pellico matura una coscienza politica ed inizia la collaborazione con la rivista "Il Conciliatore" - probabilmente il primo vagito di quello spirito unitario nazionale che ha dato vita al Risorgimento italiano - che il governo austriaco sopprime un anno dopo, nel 1819.
Aderisce alla carboneria milanese di Pietro Maroncelli e per questo motivo, scoperti dagli austriaci, viene arrestato il 13 ottobre 1820. Trasferito al carcere dei "Piombi" di Venezia, quattro mesi dopo viene processato e condannato a morte, con pena "commutata in quindici anni di carcere duro da scontarsi nella fortezza di Spielberg", in Moravia. Graziato nel 1830, fa ritorno a Torino dove trova da vivere come bibliotecario in casa dei marchesi di Barolo, rimanendone condizionato dalla mentalità conservatrice e perbenista ma ritrovando, altresì, la tranquillità e la giusta disposizione d'animo per riprendere l'interrotta attività letteraria.
Sono di questi anni le tragedie "Ester d'Engaddi", "Gismonda da Mendrisio", "Leoniero da Dertona", "Erodiade", "Tommaso Moro" e "Corradino", ed il trattato morale "I doveri degli uomini", oltre ad alcune cantiche e ad un "Epistolario". Ma la tranquillità del Pellico in casa Barolo viene presto compromessa da problemi che investono la sfera degli affetti familiari e quella delle sue condizioni di salute, che si fanno sempre più precarie. Il 31 gennaio del 1854, a Torino, Silvio Pellico muore, a soli 65 anni.
Gli anni della prigionia a Spielberg rappresentano certamente il periodo che maggiormente segnano nello spirito e nel fisico il Pellico, e proprio da questa durissima e sofferta esperienza nasce la sua opera più memorabile, "Le mie prigioni", che narra la vicenda intimamente umana e religiosa dell'autore, senza lasciarsi distrarre da sentimenti ostili di rivalsa politica. Inviso ai liberali proprio per l'apparente mancanza di "organicità" alla causa politica, e sottovalutata inizialmente dagli austriaci per ragioni analoghe, "Le mie prigioni" ottiene invece un effetto deflagrante con un enorme successo di pubblico divenendo una sorta di emblema degli ideali risorgimentali. Il cancelliere austriaco Metternich ha modo di ammettere che quel libro ha nociuto all'Austria più di una sconfitta in battaglia.
fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Silvio_Pellico