L'acquedotto medievale della Fontana Maggiore è un acquedotto di epoca medievale situato nella città di Perugia.
L'acquedotto, lungo più di 4 chilometri, fu costruito per portare l'acqua alla Fontana Maggiore, anche se è stata un'opera di straordinaria arditezza per l'epoca, storicamente non è stato molto valorizzato rispetto alla fontana, considerato come il suo parente povero, ma fu un'opera di grandissima importanza storica.
In tutta Europa vi erano le vestigia degli acquedotti romani, ma essendo dismessi e in rovina, bisognava recuperare le conoscenze delle tecniche idrostatiche greche-etrusche-romane, divenute segrete e dimenticate. La soluzione fu un ardito sistema di vasi comunicanti collegati con una lunga tubatura in piombo sotto pressione. Senza l'ausilio di pompe, ma funzionando per il principio della gravità, si riuscì ad imprimere all'acqua il moto inverso, tanto che Uguccione Ranieri di Sorbello (1960) scrive "..dappertutto in Italia si parlava di questa straordinaria città dove l'acqua va in salita." I materiali utilizzati, oltre al piombo per la conduttura, furono blocchi di pietra calcarea ed arenaria, disposti su filari, la pavimentazione del condotto è di materiale porfido con muretti in mattoni e copertina in travertino.
I lavori per la costruzione dell'acquedotto iniziarono nel 1254, dopo varie interruzione della durata di vent'anni, ripresero nel 1277 e si conclusero nel 1278 quando l'acqua zampillò per la prima volta dalla Fontana Maggiore.
Nonostante che Perugia fosse ricca di acqua, come testimoniano centinaia di pozzi, posti sotto ad ogni palazzo antico, (famosi due di epoca etrusca: il pozzo Sorbello di Piazza Piccinino, e un altro in via Caporali), e le terme romane con il Mosaico di Orfeo, la sorgente della fonte dei tintori. ecc. Nella seconda metà del 1200 il Comune di Perugia fu indotto a cercare altri approvvigionamenti idrici fuori della città, per il forte incremento demografico avuto nel 1200, una grave siccità intercorsa dal 1200 al 1250, di cui si ha testimonianza dalle fonti.
La grande opera, oltre che per la necessità di approvvigionamento, fu una “operazione di immagine” eseguita per ostentazione di potere della emergente classe mercantile. Nella seconda metà del 1200 ci fu un rivolgimento politico, il governo passò dal ceto nobiliare al ceto popolare. Questa ascesa coincise anche con la ristrutturazione urbanistica, voluta dal nuovo governo, alla quale ha dato un grande contributo Fra Bevignate, definito nell'iscrizione della Fontana Maggiore "padre della città". Le magistrature del libero Comune decisero di far diventare Perugia una delle capitali dell'Italia centrale.
L'acqua, che fino ad allora era collocata nei cortili privati dei palazzi, divenne bene comune. La costruzione di queste due opere pubbliche fu quindi un'operazione di magnificenza e magnaminità al contempo.
Nel 1250 il Comune commissiona al monaco Plenario la ricerca dell'acqua, è noto che i monaci in epoca medievale erano gli unici depositari delle conoscenze idrauliche antiche. Plenario individua il monte Pacciano come riserva di acqua e riferisce che c'è acqua a sufficienza tanto da convincere il Comune a investire risorse per la grande opera.
Nel 1254 il Comune, dopo aver individuato le risorse economiche, su progetto di Fra Plenario stipula il contratto con “Un tal Mastro Ambrogio che ebbe l'incarico di allacciare le vene di Montepacciano, a tre miglia distanti dalla città, profittando di ogni altra scaturiggine che nell'alpestre sito si rinvenisse;e per condurre quest'acque un Buonomo di Filippo da Orte ebbe quello più grave di forar monti, innalzare archi e costruire cisterne.
- Nel 1255 su progetto di Fra Plenario venne eseguito lo scavo di una galleria drenante che attraversava le tre colline del versante sud del Monte Pacciano, chiamata "vena maestra della Barigiana” (ancora in buona parte praticabile). La tecnica individuata riprende quella praticata dagli Etruschi in città: il drenaggio, l'acqua viene convogliata a livello ipogeo nelle tre gallerie filtranti con funzione di captazione, raccolta e trasporto, con lunghezza complessiva di m 560,20. La galleria si compone di tre tunnel, scavati nella roccia, con altezza tra i 1 e 2 m e una larghezza tra 0,50 e 1,30; di due cunicoli scavati e poi coperti rivestiti in cotto e di un canale discendente verso il conservone delle vene. La galleria è intercettata da 4 pozzi, il più alto e di 26 m.
Successivamente i lavori furono interrotti più volte per vari motivi, tra cui non si necessitò di approvvigionamenti esterni alla città, perché i pozzi cittadini ripresero a funzionare, ritornarono le piogge, si innalzarono le falde acquifere, oppure pesarono i problemi economici.
Nel 1266 ripresero i lavori e furono affidati a Frate Leonardo, e poi a Frate Alberto.
Nel 1276 finalmente furono affidati alla persona che portò a compimento l'opera, al Monaco silvestrio (Ramo Benedettino) Fra Bevignate, affiancato dall'ingegnere idraulico Buoninsegna da Venezia.
Nel 1277 sul versante nord del monte Pacciano chiamato “il Faggeto”, fu fatta un'altra galleria. Questa opera di canalizzazione implicò lo scavo di cunicoli per una lunghezza di oltre 500 m, la cui acqua confluì insieme alla vena maestra della Marigiana nel conservone di raccolta detto “Conserva delle vene” .
Contemporaneamente, con le maestranze di mastro Guido da Castello, in cima al monte fu costruito un altro grande serbatoio della capacità di 6000 mc, chiamato “Conservone vecchio”, per la raccolta delle acque piovane, da utilizzare sia per addolcire l'acqua troppo calcarea, sia per la disponibilità nei periodi di magra. Questa grande cisterna "Conservone vecchio" del 1277 funziona ancora come serbatoio idrico cittadino alimentato da pompe con acqua proveniente dai moderni acquedotti.
Nel 1277 si ordinano 1000 tubi di piombo per il tratto fino alla chiesa di S. Orfeto, si affida la supervisione al maestro Boninsegna da Venezia che stava costruendo ad Orvieto un altro acquedotto.
Nel 1277 vengono completati gli arconi e i cuniculi.
Il tracciato del primo acquedotto transitava per S. Orfeto, San Marco, poi risaliva per Monte Grillo, Ponte d'Oddi, Monastero di S. Caterina vecchia, Monastero di Monte Ripido, poi attraversava sotto le mura medievali confluendo nella grande cisterna del Monastero S. Agnese (Corso Garibaldi), scendeva poi nella valle della conca attraverso le 10 campate della odierna via dell'acquedotto. Da qui termina l'ultimo tratto a cielo aperto, in via Appia, e l'acqua, per il principio dei vasi comunicanti (essendo il punto di arrivo più basso del punto di partenza) risaliva nell'ultimo tratto sotterraneo che confluisce alla fontana . Per entrare nella città, circondata dalle spesse mura etrusche, la tubatura venne fatta passare all'interno di un cunicolo che inizia dalla porta etrusca minore chiamata “Postierla della Conca" in via Appia. Il tracciato esisteva fin dall'epoca etrusca, come via pedonale o come fognatura. Il cunicolo medievale costruito su questo tracciato è ancora praticaile solo fino all'area archeologica della Cattedrale.
Nel 1278 fu costruita la fontana maggiore e terminò la costruzione acquedotto. L'acqua zampillò la prima volta il 13 febbraio 1280.
L'acqua poi proseguiva da un fontanile poco più in basso nella piazza del mercato (Sopramuro odierna piazza Matteotti, scendeva poi a S. Ercolano e al Crocevia di Corso Cavour fino ad esaurirsi nel Fosso di S. Margherita.
Nel 1293 cessò l'afflusso di acqua per la rottura di tubi, proprio durante l'imminente l'arrivo del Papa Bonifacio XVIII. Per non far brutta figura si ordinò il trasporto di acqua piovana a schiena di asino. (Per ironia della storia un episodio analogo si ripetè durante la visita di Benito Mussolini per l'inaugurazione della nuovo acquedotto di Villa Scirca, il 24 agosto 1932, non essendo ultimata l'opera - raccontano alcuni testimoni del tempo - che il Podestà Giovanni Buitoni ordinò al Fontaniere di far pompare a pedali l'acqua da alcuni operai, nascosti dentro la fontana).
Nel 1309 l'acquedotto è in rovina, oltre che per problemi funzionali e incrostazioni di calcare, a causa dei numerosi furti delle tubature di piombo e di acqua a scopo irriguo.
Nel 1317 il consiglio generale incaricò Frate Vincenzo di progettare il ripristino dell'acquedotto. Effettuate tutte le ricognizioni il monaco propose l'abbandono del primo acquedotto, per sostituirlo con un altro più corto di 700 m, ma più ripido, che si rilevò poi troppo ardito, con un dislivello di 150 metri su 1400 di percorso ed una successiva risalita di circa 140 m su 1800 di percorso. Conseguentemente la pressione dei tubi divenne il doppio del primo tracciato, tanto che fu necessaria la fusione dei tubi per farne dei nuovi più spessi di due cm, installati nei punti più depressi.
In 5 anni nel 1322 tornò l'acqua alla fontana, come indica la targa nel bacino superiore. Invece di passare per S. Orfeto e San Marco, si scelse la valle del Rio nel fosso dello Spinello, passando poi per Pontedoddi. Da qui la conduttura riprende il percorso cittadino di prima, passando per Monteripido, via del Fagiano e a cielo aperto in via dell'Acquedotto. Un carico di pressione eccessivo per le tubature di allora, tanto che si susseguirono interruzioni e numerosi interventi manutentivi, nel 1561 è menzionato il ripristino di Vincenzo Danti, e nel 1760 di Ruggero Giuseppe Boscovich.
Le ricerche storiche hanno rilevato la tenacia e la mole di investimento della municipalità, non solo nella fase costruttiva, ma anche nel corso dei secoli, superando innumerevoli difficoltà per mantenere attiva questa grande opera. Nonostante il grande investimento per 5 secoli la funzionalità dell'acquedotto non è stata efficiente, a causa dei problemi funzionali, manutentivi, danneggiamenti, e sabotaggi durante le lotte intestine, tanto che l'acquedotto fu dismesso. Nel 1827 fu sostituito con uno nuovo con la direzione dell'ingegnere comunale Giovanni Cerrini, con le acque dell'Appennino di Nocera dirette sempre al serbatoio di Monteripido. Il nuovo acquedotto fu realizzato con tubi di ghisa ripristinando il primo tracciato del 1280 con partenza dal nuovo serbatoio.
La dismissione dell'acquedotto non fu dovuta solo a continui problemi funzionali e manutentivi, quali il calcare che incrostava le tubature, difetti congeniti di ordine tecnico come l'utilizzo per gli archi di pietre sensibili al gelo, malte scadenti, e soprattutto la pressione, che nel secondo acquedotto era eccessiva. Un altro fattore incise nei secoli sulla funzionalità dell'acquedotto: il rapporto conflittuale tra la città e il contado . Gli abitanti del contado non ostante che avessero partecipato alla costruzione, non trassero nessun beneficio dalla grande opera, ma solo fastidi, perché l'acquedotto, oltre a costituire ostacoli ai lavori agricoli, imponeva l'obbligo di mantenere le distanze, pertanto gli abitanti del contado reagirono furtivamente; scoprirono che la conduttura era una miniera di materia prima (piombo) duttile e costosa, e l'acqua preziosa per l'agricoltura. A questi furti vanno aggiunti i sabotaggi ad opera dei Sanfedisti del 1799.Altre cause potrebbero essere la scarsa applicazione delle tecniche etrusco-greco-romane, o più verosimilmente la realizzazione dei progetti, ad opera delle ditte appaltatrici, fatta non a regola d'arte. Con il senno dei posteri, l'ingegnere Giovanni Cerrini, autore dell'acquedotto ottocentesco, giudicò la pendenza del secondo acquedotto medievale troppo ardita, per cui la pressione si è rilevata troppo forte.
fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Acquedotto_medievale_della_Fontana_Maggiore